Blue Jasmine

Solo poco tempo fa, parlavo proprio qui del traduttese e del doppiaggese, e di quanto possano minare la fruizione delle opere cinematografiche e letterarie e lo stesso uso della lingua. Per fortuna, il mondo del doppiaggio e della traduzione non è fatto esclusivamente da individui incapaci e superficiali, ma anche da tantissimi professionisti preparati, che svolgono il proprio lavoro con competenza e dedizione. Quando posso, preferisco soffermarmi sugli esempi d’eccellenza, perché questo settore è spesso molto criticato per i propri errori e poco elogiato per le proprie soluzioni brillanti.

L’altro giorno ho potuto apprezzare l’interessante adattamento italiano del film Blue Jasmine di Woody Allen. Consiglio vivamente di vedere il film, in qualsiasi lingua preferiate, perché è davvero ben fatto: una trama semplice, ma narrata senza seguirne la scansione temporale, si dipana attorno alla straordinaria interpretazione di Cate Blanchett (per la quale l’Oscar 2013 è stato assolutamente meritato), sorretta da un’analisi lucidissima dei comportamenti, delle debolezze, degli errori che gli esseri umani commettono pur di essere felici.
Sebbene si tratti di fiction, Blue Jasmine disegna un quadro attento ed estremamente verosimile, nel quale è facile restare coinvolti fin dalle prime scene. La sospensione dell’incredulità, il coinvolgimento dello spettatore passano inevitabilmente anche dal linguaggio; in un’opera come questa, che trova i propri punti di forza nella verosimiglianza e nella lucida rappresentazione dei comportamenti umani, è importante che i dialoghi mantengano alto il livello di credibilità, attraverso un linguaggio fedele al parlato, che contenga la giusta dose di espressioni gergali e non scada mai nel doppiaggese, che lo renderebbe forzato e artefatto.
Questa volta sono stata felice di guardare il film nella sua versione doppiata in italiano: il lavoro di traduzione e adattamento di Elettra Caporello e il doppiaggio del team diretto da Maura Vespini, per Technicolor spa, sono realizzati ottimamente.
Non vorrei svelare nulla della trama, ma cercherò con qualche esempio di dimostrare l’attenzione dedicata alle scelte lessicali di questi dialoghi.

NORA:  What’s the matter? Your mind’s a million miles away.
JASMINE: Oh, I’m sorry. No, I… I just got a call from my sister, Ginger. Oh, God, she’s coming to New York for a week with her husband, Augie. He is a piece of work. I just… I don’t know, I guess I have to see them.

NORA: Che ti prende? Hai la mente a milioni di chilometri.
JASMINE: Oh, scusami. No, è che… Ho avuto una telefonata da mia sorella Ginger. Oh, Dio! Sta venendo a New York per una settimana col… col marito, Augie, che te lo raccomando, e non so… credo che li dovrò vedere purtroppo.

AUGIE: Boy, this is some place you got here. I mean, this is unreal.

AUGIE: Però! Alla faccia del posticino che avete qui! Voglio dire, è da non crederci!

CHILI: Hey, remember to tell her when she gets here, okay?
GINGER: Believe me, she won’t care. She is half out the door.

CHILI: Ehi, meglio se glielo dici quando torna, okay?
GINGER: Dammi retta, se ne frega. Se n’è già andata, in pratica.

Credo salti all’occhio subito qual è la dote fondamentale di questi dialoghi: sembrano veri. Siamo lontanissimi dal doppiaggese artefatto, dai calchi che ripropongono in italiano i modi di dire americani, dalle frasi troppo letterarie e ricercate per essere accettabili nella rappresentazione del linguaggio parlato.
Intuizioni come ‘alla faccia del posticino’ e ‘ te lo raccomando’ sono perfette riproduzioni del linguaggio gergale, ed è così che i dialoghi vengono pronunciati da individui tridimensionali, realistici, adatti allo stile di Blue Jasmine.

Ottenere questi risultati è possibile solo attraverso una profonda conoscenza di entrambe le lingue e le culture, e una costante attenzione ai messaggi e ai valori delle opere filmiche sulle quali si lavora. Elettra Caporello ha alle spalle una lunga e produttiva carriera, nella quale ha tradotto e adattato per l’Italia tutti i film di Woody Allen, a partire da La dea dell’amore del 1993. Si può dire, perciò, che ha giocato in casa, quando ha dovuto intraprendere la traduzione di Blue Jasmine, poiché già conosceva lo stile e l’umorismo unici del regista. Ciò non di meno, la sciatteria del doppiaggese non colpisce solo traduttori e adattatori in erba, o che ignorano il campo di gioco, perciò il lavoro puntuale di questa squadra merita un plauso e una segnalazione.
Mi piace moltissimo anche la scelta di lasciare intatto il titolo originale. La sola idea di un gelsomino blu sarebbe già abbastanza intrigante e immaginifica, ma c’è di più: il colore blu, nella cultura angloamericana, è spesso associato alla malinconia, alla tristezza, e quindi alla parabola discendente, al blu nel quale precipita la vita della protagonista. E poi c’è un velato riferimento a Blue Moon, la canzone che, nel corso di tutto il film (come si può vedere nel trailer), richiama alla memoria della protagonista la vita felice ormai lontana. Come in ogni traduzione, alcuni di questi significati verrano perduti e trascurati dalla maggior parte degli spettatori, ma è comunque giusto e piacevole mantenerli, dato che non disturbano e non confondono in alcun modo il pubblico italiano.
Rinnovo ancora una volta il mio invito a vedere il film: è giusto premiare i dialoghi italiani ben riusciti, e poi l’interpretazione magistrale di Cate Blanchett e l’acutissima sceneggiatura di Allen rendono Blue Jasmine un’opera imperdibile.

Il traduttese

Il processo mentale che da un testo nella cultura emittente producesse un testo nella cultura ricevente, senza attraversare una fase intermedia di trasformazione in materiale mentale poi riconvertito e riverbalizzato, non sarebbe traduzione testuale, ma creerebbe un prodotto di scarto di cui a volte si percepiscono le tracce in quello che viene chiamato “traduttese”.

Do it like a bandaid: one motion, right off! itsover
Rapido come un cerotto, uno strappo e via, perché faccia meno male. Non saprei dire quante volte l’ho sentito. Un personaggio consiglia a un altro di affrontare l’imminente situazione dolorosa come se fosse un cerotto da strappare. Si tratta di un concetto ormai diffusissimo, riproposto spesso con disinvoltura, come se facesse parte delle metafore a cui la nostra cultura ricorre da sempre. In realtà, se spegniamo la tv, se smettiamo di leggere libri di autori stranieri, se non giochiamo ai videogiochi, questa espressione in italiano non è mai esistita. Certo, anche in Italia esistono i cerotti, ma nel nostro immaginario non c’era mai stato spazio per un cerotto che, se strappato con un’unica mossa decisa, avrebbe simboleggiato il modo migliore per affrontare vicende dolorose e separazioni sofferte. Per esprimere un concetto similissimo, tanto simile da poter essere, in sede di traduzione, tranquillamente sovrapponibile all’originale, in Italia abbiamo sempre detto Via il dente, via il dolore. Ma credo che presto non lo ricorderà più nessuno.

Lo chiamano traduttese, o doppiaggese, ed è quel linguaggio che i miei colleghi (e mi chiamo fuori non per superiorità, ma perché non ho una carriera sufficientemente lunga alle spalle da permettermi di essere responsabile) hanno creato nell’importare prodotti stranieri, letteratura, cinema, videogiochi, fumetti, serie televisive… Ho sempre pensato che il traduttese nascesse da scelte pigre, da una scarsa riflessione, dalla fretta forse, ma soprattutto dall’errata convinzione che l’immersione nella cultura straniera di cui il traduttore si nutre quotidianamente sia una caratteristica comune a tutti i suoi compatrioti, che tutti conoscano gli usi e i costumi altrui e che, quindi, a conti fatti, la traduzione sia un passaggio obbligato e un po’ inutile, una trasmissione, una corrispondenza di parole, più che di contenuti. Perché se io conosco la cultura e i modi di dire degli Stati Uniti (che useremo come esempio solo perché più grande esportatore mondiale di prodotti di intrattenimento), una traduzione letterale a volte mi sarà sufficiente. Magari non sarà una soluzione elegante, ma mi basterà a capire. Il problema è che spesso non è così. Il pubblico italiano è estremamente eterogeneo, e nell’individuazione del target dell’adattamento di un telefilm che va in onda in prima serata non si può trascurare la grossa fetta di pubblico che giustamente si aspetta una traduzione ben fatta perché non conosce l’inglese. In realtà, il processo è ancora più complesso, perché, come accennavo qualche riga fa, la continua evoluzione delle lingue è un vantaggio pericoloso. Fino a quando alcune espressioni tipiche del traduttese resteranno innaturali? Dopo tanti anni in cui per dirsi addio John e Jane saranno sbrigativi, come se dovessero strapparsi un cerotto, persino la sessantenne zia Elisa avrà smesso di farsi domande su cosa vuol dire quella espressione e su quanto sia strana in italiano. Zia Elisa in tv non si aspetta più di trovare l’italiano: lei guarda i film in doppiaggese.
Per i giovani, il processo sarà ancor meno doloroso all’apparenza, ma ben più deleterio: fin dai tempi di Non è mai troppo tardi, l’italiano medio impara a parlare la propria lingua attraverso la fruizione dei programmi televisivi. Visti in quest’ottica, il traduttese e, soprattutto, il doppiaggese sono armi pericolose: insegnano e dettano la norma, importano frasi da divo di hollywood e metafore nuove, che ci entrano in testa senza passare dal via, senza passare dal bagaglio di cultura che ci portiamo dietro. Dal nulla all’ovvio in poco più che un paio di film.
Rapido come un cerotto, appunto.


Cfr. Osimo B., Manuale del traduttore: guida pratica con glossario, Hoepli, 2004: 95.